Stellantis se ne va negli Usa

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di Alessandro Angelone.

Stellantis investe 13 miliardi negli USA: l’Europa resta al palo? E l’Italia? 
Stellantis investe 13 miliardi negli USA e cambia completamente marcia. L’annuncio del colosso automobilistico non è soltanto un dato economico, ma un messaggio politico-industriale che risuona forte e chiaro da un capo all’altro dell’Atlantico. La strategia è quella di aumentare del 50% la produzione di veicoli su suolo americano, rilanciando impianti, introducendo nuovi modelli e soprattutto creando occupazione. Più di 5.000 posti di lavoro sono attesi nel giro di quattro anni. È il più grande investimento dell’azienda in oltre un secolo di storia.
Il cuore del piano batte tra Michigan, Ohio e Illinois. Negli impianti americani nasceranno nuovi SUV ibridi plug-in, versioni a motore termico, pick-up di medie dimensioni e la nuova generazione della Dodge Durango. A Detroit si ristruttura, a Warren si espande, a Belvidere si riapre ciò che era stato chiuso. L’impianto di Toledo, dal canto suo, diventerà centrale per la produzione di nuovi modelli strategici. Tutto questo a partire dal 2028, con l’obiettivo di presidiare ancora più saldamente il mercato statunitense.
Una simile accelerazione industriale non può essere letta senza tenere conto del contesto politico. Nel 2024, il 40% delle vendite Stellantis negli USA era frutto di veicoli importati. Ma i dazi, inaspriti dall’amministrazione Trump, stanno cambiando le regole del gioco. Importare non conviene più, produrre in loco diventa quasi un obbligo. In questa prospettiva, l’investimento si configura come una risposta non solo strategica, ma obbligata. E forse, proprio per questo, destinata a ridisegnare gli equilibri produttivi dell’intero gruppo.
L’Europa, e in particolare l’Italia, osserva la scena con un misto di sgomento e impotenza. Negli stabilimenti italiani l’incertezza è palpabile, mentre dall’altra parte dell’oceano si inaugura una nuova era. Le dichiarazioni di Antonio Filosa, amministratore delegato di Stellantis, non lasciano spazio a interpretazioni ambigue: “Questo investimento stimolerà la nostra crescita, rafforzerà i nostri impianti produttivi e porterà più posti di lavoro americani negli Stati che consideriamo la nostra casa”.
Parole chiare, limpide. E difficili da digerire per chi, come l’Italia, da anni si interroga sul destino dell’industria automobilistica nazionale. Il dibattito politico, anche in questo caso, sembra arrancare. Carlo Calenda aveva dichiarato pochi giorni fa che “John Elkann non ha le capacità gestionali per restare al vertice”, una frase che oggi risuona vuota, o perlomeno fuori fuoco, rispetto a un’azienda che pianifica il futuro con cifre da capogiro. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha abbozzato un invito, a tratti surreale: “Se il Parlamento lo chiede, Elkann torni in Parlamento”. Il segretario della CGIL, Maurizio Landini, ha invece scelto il silenzio. Un silenzio che, in questo contesto, pesa quanto un comunicato.
Sui mercati, invece, la reazione è stata immediata. Il titolo Stellantis ha registrato un deciso rimbalzo in Borsa, segnale che gli investitori credono nella virata americana. Le agenzie di rating, pur mantenendo un atteggiamento prudente, osservano con interesse la solidità e la tempistica dell’operazione. Il punto cruciale resta la sostenibilità di un investimento di queste dimensioni. Ma la fiducia, almeno per ora, sembra prevalere.
L’Europa rischia di restare tagliata fuori. Non solo come hub produttivo, ma anche come polo decisionale. L’Italia, in particolare, appare sempre più marginale nelle scelte strategiche del gruppo. Se in America si assumono ingegneri e si aprono catene di montaggio, nel nostro Paese si moltiplicano le richieste di cassa integrazione e le chiusure di reparti.
Questo piano non è solo una manovra industriale. È un cambio di paradigma. Una riorganizzazione profonda dell’assetto globale di Stellantis, che sceglie chiaramente la sponda atlantica. È un’operazione che risponde al contesto economico, ma anche alla politica dei dazi, ai sussidi statunitensi per la green economy e alla capacità americana di fare sistema, cosa che in Europa sembra sempre più difficile.
In conclusione, non si può più parlare di fuga o di delocalizzazione. Il termine giusto è rilocalizzazione: Stellantis non sta scappando, sta scegliendo dove mettere radici. E queste, oggi, non sono più in Italia.

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