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di Flavia Di Giustino.

Un viaggio alla scoperta del tequila nel paese dei maya e degli aztechi.

Ci sono ventiquattro ore di viaggio tra me e il Messico e ben otto di fuso orario, ma, quando atterro a Guadalajara, la fatica all’improvviso si dissolve e l’aria calda della regione di Jalisco mi avvolge. C’è voluto anche un volo interno per trasportarmi qui, nel cuore della regione più importante al mondo per la produzione del tequila e mi sento benissimo. E sì, chiariamolo subito: si dice “il Tequila”, non “la Tequila”.

Per prima cosa prendo un driver che dall’aeroporto mi porta a Tlaquepaque. Avete mai visto Coco, il film della Disney? Ecco, Tlaquepaque è come esserci dentro: tutto grida MESSICO e lo fa attraverso i colori sgargianti delle case basse, le botteghe, le piccole gallerie d’arte piene di tesori, le strade pedonali di acciottolato, i mariachi, i camioncini di street food sfrigolanti, i bambini che corrono, gli animali disegnati un po’ ovunque e l’odore invitante della carne grigliata. Mi avvio sulla strada principale, Calle Indipendencia. Le bandierine colorate che svolazzano sulle teste dei pedoni al ritmo di un vento caldo e stanco mi ipnotizzano.

Mi lascio attirare dalla vetrina della “Galeria de Sergio Bustamante”, una piccola galleria d’arte che promette “un viaggio nella malinconia dell’artista”. Vengo catapultata in una dimensione onirica: le opere in esposizione fondono il surrealismo con elementi tipici della cultura messicana e mi incantano. Animali, costellazioni, una luna in tutte le sue forme ed espressioni, danzatori, geometrie, colori e sensazioni.

L’arte mi ha fatto venir fame. Ho voglia di tortillas e di tacos del pastor. Uscendo dalla galleria, noto che proprio accanto c’è un locale e che sull’arco della porta esterna troneggia la scritta “Cielito lindo” e quel nome già mi piace. Eccomi in un ristorante bello quasi quanto le opere di Bustamante, fatto di interni che mi ricordano una giungla urbana e di un cortile spazioso e variopinto. Scelgo una mesa in questo giardino segreto per godermi i raggi caldi del sole. Le aspettative vengono lungamente superate: un tripudio di cibo, una mezcla di carne, pesce e opzioni vegetariane, un invito a mangiare con le mani, a comporsi il proprio taco, a godersi il tutto in abbinamento a un delizioso Tommy’s Margarita on the rocks. Esco satolla, felice e beata in un climax di allegria che mi riempie. Adesso me ne torno a Guadalajara, pernotto all’Hilton di Midtown, mi godo un bel sonno di bellezza e mi preparo per una sveglia all’alba e per mettermi di nuovo in viaggio verso il cuore della regione di Jalisco pronta a perdermi tra le piantagioni di agave.

Sulla via verso il tequila, io mi innamoro. Mi innamoro delle piantagioni di canna da zucchero e del loro rigoglioso verde che ondeggia nel vento. Mi innamoro dei pick up pieni di bambini sul retro che si tengono stretti fra loro e mi fanno ciao con la mano. E mi innamoro delle sconfinate distese d’azzurro che mi circondano: sono le agavi. Piante sacra per il popolo Maya e per gli Aztechi, le agavi sono l’origine prima del distillato che oggi chiamiamo tequila. Prima del tequila però, c’era il pulque, un nobile ed antico antenato oggi reperibile in piccoli bar messicani fuori dal centro delle grandi città. Il pulque fu la prima bevanda alcolica derivante dalla fermentazione degli zuccheri dell’agave e veniva bevuta durante rituali sacri e religiosi sin dall’antichità. Ho bevuto il pulque in un microscopico bar di Cholula: per i neofiti potrei descriverlo come freschissimo, ma viscoso zucchero liquido!

Visiterò la distilleria di Volcan De Mi Tierra, nel cuore di Huaxtla, sulla strada che da Guadalajara porta alla città di Tequila; eh sì, perché Tequila non è solo il nome di un distillato antichissimo, ma anche quello di una delle città più importanti della regione di Jalisco e non solo: Tequila è il nome di un Vulcano che si staglia, con i suoi quasi 3.000 metri, proprio di fronte alle piantagioni di agave di questa Distilleria.

È stato questo vulcano che – eruttando oltre 200.000 anni fa – ha reso il suolo della regione di Jalisco fertile per la coltivazione dell’agave e dunque per la produzione di tequila.

Quando arriviamo, sento la magia che mi pervade. Siamo letteralmente nel mezzo del nulla e davanti a noi si staglia un mastodontico cancello in legno e ferro battuto.

Quando si apre, eccola lì: la hacienda. Fa molto caldo e c’è un’umidità ai limiti del sopportabile, il sole è torrido e noi veniamo accolti con una granita di tequila servita in deliziosi jarritos di ceramica che è come una medicina per le nostre gole secche e assetate.

La prima cosa che mi toglie il fiato è la visione del Vulcano Tequila: è lì, sullo sfondo, infinito e silenzioso, antichissimo e saggio. Alle sue pendici, una distesa a perdita d’occhio di agavi. Ne esistono oltre 400 varietà, ma quella davanti a noi è l’agave Azul o Blue Weber, in assoluto la più pregiata.

Andiamo subito a fare una passeggiata nella piantagione e così ho modo di scoprire che un’agave può richiedere fino a dieci anni per essere matura e pronta alla raccolta. Scopro anche che ogni agave “dà alla luce” una baby agave più piccola che sorge all’ombra delle sue foglie ormai grandi e adulte. Scopro che il suolo, vulcanico, è ricco di obsidianas, lucidissime pietre nere vulcaniche che i messicani trattano come amuleti contro la cattiva sorte. Ne trovo una e la porto con me, “Chica afortunada!”, mi apostrofa il nostro Cicerone di nome Carlos.

Ci sono degli uomini sullo sfondo di questo paesaggio onirico: sono gli jimadores. Sono piegati sotto il sole con le loro coas e stanno sradicando le agavi ormai mature. Si preparano a estirparne tutte le foglie e a trattenere solo ciò che serve per avviare la produzione di delizioso tequila: il loro cuore, la piña.

Ci avviamo ora verso la “catena di montaggio”: il tequila si può produrre seguendo un processo tradizionale o uno moderno. In questa distilleria c’è un connubio di entrambi. Raggiungiamo gli uomini incaricati di avviare il processo produttivo attraverso la cottura delle piñas nei forni. Mi chiedono se voglio provare e non me lo faccio ripetere due volte: le piñas possono arrivare anche a 50kg di peso ciascuna e spesso trattengono numerose spine delle foglie appena estirpate. Per fortuna me ne passano una relativamente piccola, ma per le spine nelle mani niente da fare: ci ho messo un giorno a estrarle tutte!

Guardare le piñas cuocere nei hornos de mamposteria è ipnotico.

Un “cow-boy” si avvicina a noi e ci presenta un vassoio d’argento pieno di bastoncini di agave cotta. Sono deliziosi: zucchero di agave allo stato puro. Vanno succhiati, non masticati e pare sia la tipica merenda dei bambini a Jalisco. Ci lecchiamo le dita tutte appiccicose e proseguiamo verso la Tahona: l’enorme ruota in pietra utilizzata per frantumare le piñas appena cotte e ammorbidite e estrarne tutti gli zuccheri che vengono poi messi a contatto con i lieviti per avviare la fermentazione e la produzione di alcohol.

Una volta ottenuto il primo liquido alcolico a base di zuccheri di agave, questo viene distillato in alambicchi in rame e poi inizia la mistica fase dell’invecchiamento. Scendiamo nelle rinfrescanti cantine dell’hacienda e ci lasciamo ammaliare dal fascino delle botti in legno e dell’odore che impregna l’aria.

Quando riemergiamo alla luce del sole scopriamo che non meno magica è la fase ultima dell’imbottigliamento: ci sono bellissime donne dallo sguardo fiero che si occupano di applicare ogni singola etichetta a mano e la rapidità dei loro movimenti sembra una danza.

Arriva poi il momento più atteso: degustazione di quattro diversi tequila, tutti con invecchiamenti e blend diversi, e tacos! Le stesse donne che, fino a pochi minuti prima, avevamo visto etichettare a mano ogni bottiglia stanno ora preparando tortillas e sfilacciando carne di maiale. Mi trovo qui, nel cuore del Messico più autentico, persa tra campi di agave blu alle pendici di un vulcano, nell’aria l’odore di tequila e tra le mani un taco appena sfornato, fatto da una signora che mi ricorda mia nonna paterna e che mi sorride mentre mi invita a godermi una siesta. Mi sento grata.

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