Andrea Marino, avvocato, è il legale rappresentante della Fenice onlus che gestisce a Sulmona “Le Case di Giona”, case famiglia distribuite in due comunità educative e in due gruppi appartamento.
Con una lettera aperta, pubblicata sui social, l’Avv. Marino esprime il suo profondo rammarico per degli atteggiamenti e dei commenti di intolleranza da parte di alcuni cittadini, che ovviamente da bravi leoni della tastiera si sono celati dietro pseudonimi risibili, che sono risultati offensivi e mortificanti della, invece, lodevolissima attività portata avanti dall’ente di cui Marino è responsabile.
L’abbiamo intervistato per capire bene cosa è successo.
1.- Avvocato Marino ma cosa è successo, cosa ha generato questo clamore?
Nell’ultimo periodo, e sempre più spesso, episodi di cronaca locale vengono automaticamente collegati alla nostra attività ed ai ragazzi che ospitiamo, con un automatismo a volte davvero avvilente che da un lato svilisce, mortifica e confonde il nostro lavoro (affidandosi a facili preconcetti sul c.d. business dell’accoglienza) e dall’altro, soprattutto, attacca in maniera pedestre i nostri ragazzi, adolescenti anche stranieri, inevitabilmente attinti dalle problematiche di quell’età e spesso portatori di criticità e vissuti ben più incidenti di quelle dei giovani locali che certo non giustificano i comportamenti in cui, a volte, alcuni di loro (per onor del vero la minima parte) si lasciano coinvolgere ma dovrebbe, come minimo, garantirgli uno sguardo più indulgente.
2.- quindi c’è una parte dell’opinione pubblica che attribuisce ogni disturbo, ogni intemperanza ai suoi ospiti?
Purtroppo sì. E non solo tutto ciò che accade in una città in cui il fenomeno della devianza giovanile si avverte sempre di più viene automaticamente associato a noi (trascurando tra l’altro il fatto che non siamo l’unica struttura del territorio a gestire strutture come questa), ma in ogni occasione l’attenzione viene virata verso di noi, anche quando davvero non coinvolge neppur lontanamente i nostri ospiti o il nostro operato (e gli episodi recenti di via Dalmazia o dell’ospitalità, per una notte e su esplicito mandato del Ministero della Giustizia, di un giovane coinvolto, in Emilia, in gravi episodi di cronaca sono in tal senso davvero mortificanti).
Uno sguardo censorio, spesso non alieno da incommentabili preconcetti razzisti, che non perdona nulla ed anzi amplifica tutto secondo il quale i nostri adorati ragazzi, e noi con loro, dovrebbero evidentemente “scontare una pena”, ringraziare in silenzio e camminare per la città “a testa bassa” e “sotto scorta” (e quante volte si confondono le nostre strutture con dei centri di reclusione, e quante volte abbiamo dovuto replicare all’avvilente “stupore” di chi si chiede come mai i nostri ragazzi possono uscire da soli!).
3.- qual è l’inquadramento istituzionale e finanziario delle vostre strutture?
Siamo una Onlus. Io e gli altri soci dell’associazione non siamo né possiamo essere dipendenti né, tantomeno, partecipare ad utili che, semplicemente, non possiamo produrre (e, per estrema chiarezza, il mio lavoro è un altro).
Abbiamo però oltre venti dipendenti e collaboratori (tutti regolarmente assunti e puntualmente retribuiti).
Soprattutto, e ancora a scanso di equivoci, siamo, necessariamente, una realtà imprenditoriale (per precisione “un’impresa sociale”) e non un ente benefico che possa affidarsi solo al buon cuore delle persone o all’attività di volontari (su cui comunque facciamo affidamento e per la quale non finiremo mai di ringraziare la parte, silente ma numerosa, della società che quotidianamente ci accompagna nel nostro lavoro).
Ogni mese dobbiamo vestire, nutrire e occuparci, a 360 gradi, di moltissimi ragazzi; sostenere spese, davvero ingenti, per l’affitto e la gestione delle nostre strutture, garantire la retribuzione ed i contributi per tutti i nostri dipendenti (per non parlare di ciò che facciamo, in maniera del tutto gratuita, per sostenere i nostri ospiti anche dopo il compimento della maggiore età, quando la legge ci imporrebbe di “metterli alla porta”).
La sostenibilità, per noi, non è un’opzione ma un obbligo primario ed intangibile ed a cui destiniamo, ovviamente, le nostre intere risorse (attingendo, quando ciò purtroppo si è reso necessario, anche alle nostre risorse personali). Come in tutte le famiglie, la priorità è garantire l’indispensabile a quelli che consideriamo, né più né meno come i nostri figli. Semplicemente, però, la nostra famiglia è molto “numerosa” e credo basterebbe mostrare ai leoni da tastiera una nostra bolletta o il conto settimanale del nostro fornitore di alimenti per mettere a tacere ogni voce su presunti “business”.
3.- può spiegare le loro finalità?
Come recita la nostra carta dei servizi, noi svolgiamo un’azione concreta di accoglienza ed assistenza in favore di bambini e minori che, per ragioni ed in forme diverse (abbandono, violenza, maltrattamenti, abuso ecc..) si trovano in situazioni esistenziali particolarmente difficili. Più in generale, l’Associazione si rivolge poi anche ad altre fasce di età, e si occupa anche di altre situazioni di fragilità, proponendosi di ospitare tutti coloro che abbiano necessità di accoglienza abitativa e che vivano in condizioni di temporaneo disagio, anche con problematiche di disturbo e necessità di assistenza sanitaria, accogliendoli in piccoli villaggi solidali e creando un contesto in cui, al fondamentale supporto della relazione con l’altro e della quotidiana condivisione, si accompagni la possibilità di appoggio e tutela da parte di volontari e personale specializzato.
Abbiamo scelto, non certo casualmente, di ispirare i nomi delle nostre strutture alla metafora di Giona, e così come il profeta trovò nel ventre della balena riparo dalla tempesta, le nostre case vogliono rappresentare un porto sicuro, piccole comunità di accoglienza e condivisione nelle quali recuperare i propri punti di forza, scoprire nuove opportunità o anche solo “tirare il fiato” prima di riprendere il largo.
4.- in esse sono ospitati ragazzi solo stranieri o anche italiani e quanti sono?
Ad oggi gestiamo due comunità educative che possono ospitare fino a dieci ospiti ciascuna e due gruppi appartamento (destinati alla “semiautonomia”) nei quali è possibile ospitare per ciascuno fino a sei ospiti. Al momento attuale ospitiamo 23 minori e 4 ragazzi neomaggiorenni cui è stato riconosciuto dal Tribunale per i Minorenni il cd. “prosieguo amministrativo” (affidandoli a noi potenzialmente fino al compimento del 21° anno di età). In prevalenza si tratta di minori stranieri non accompagnati ma non mancano i ragazzi italiani (e spesso si tratta di quelli attinti da maggiori “criticità”).
5.- in cosa consiste la vostra attività?
E’ difficilissimo rispondere a questa domanda. Noi cerchiamo di ricalcare, laddove necessario (e quindi quando non siano percorribili prospettive di affido o di reinserimento in famiglia), tramite progetti, corsi, percorsi laboratoriali e, soprattutto, un quotidiano lavoro educativo, l’evoluzione del percorso di vita dei minori accolti con l’obiettivo di supplire alla impossibilità, più o meno temporanea, di permanenza nel nucleo familiare di origine (perché totalmente e/o parzialmente assente o perché, auspicabilmente in linea transitoria, contrastante con il progetto individuale del minore), tramite rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia, e quindi assumendoci, appunto in termini di supplenza, responsabilità e funzioni genitoriali e/o parentali. Il fine, dichiarato, è quello di evitare qualunque forma di discriminazione e marginalizzazione di contesti border line e, prima ancora, di ritrovare, proprio nelle infinite sfumature di un normale ambito familiare, la traccia che consenta ai minori inseriti di ritrovare la propria strada confrontandosi con “l’Altro”, magari proveniente da un altro Paese o con alle spalle una storia completamente diversa, e quindi di misurarsi con le inevitabili differenze; una nuova famiglia, sul modello delle comunità familiari “con multiutenza complementare”, di necessità multiforme e variegata, che consenta, chissà, di riscoprire quella di origine. La metodologia educativa utilizzata, all’interno di una prospettiva che abbiamo ovviamente affinato sul campo nel corso di questi anni, risente dell’influenza di diverse teorie, sia pedagogiche sia di assistenza sanitaria e psichiatrica, che contribuiscono a generare un modello che integra l’impostazione sistemico relazionale a quella cognitivo comportamentale sempre con al centro il concetto di “cura”.
Ciò che intendiamo proporre e perseguire non è quindi un’educazione che impartisca uno “stile morale”, che educhi a dei comportamenti e “imponga” dei modi di essere determinati, ma un’educazione che al contrario insegni a pensare, a ragionare criticamente anche e soprattutto attraverso l’altro e che formi quindi al riconoscimento dell’identità e dell’alterità, capace di rivisitare i suoi fondamentali pratici dal punto di vista della cura, così da riportare in primo piano i valori della prossimità, del riconoscimento, della parola e della relazione. Un’educazione ad aver cura dell’altro, a riconoscerlo come pari, come essere umano intrinsecamente e costantemente incompleto e per questo necessitante di una forma di reciprocità e aiuto continuo all’interno del cammino verso sé stesso, verso la sua forma più autentica. Un’educazione ad “aver cura di sé” che consenta poi di imparare ad “aver cura dell’altro” e quindi ad offrirgli, e prima ancora ad “offrirsi”, la possibilità di trovare sé stesso e di realizzare il proprio essere.
6.- che tipo di problematiche si possono incontrare tra i vostri ospiti e da quale tipo di vissuto provengono?
Le problematiche, sono, naturalmente, molteplici e spesso diversissime. Si va dal minore attinto da disturbo della condotta e sostanzialmente ingestibile all’interno del “normale” contesto familiare a quello invece proveniente da un ambito assolutamente disfunzionale dal quale deve essere, appunto ed auspicabilmente in maniera temporanea, sottratto. Ci sono poi i minori stranieri non accompagnati che una famiglia, sul nostro territorio, semplicemente non ce l’hanno e che portano spesso con loro un vissuto indicibile di sofferenza, magari accumulato proprio nel lungo viaggio di arrivo in Italia. Abbiamo anche ospitato minori coinvolti nel circuito penale ed inseriti da noi in misura cautelare oltre che minorenni vittime di tratta e letteralmente “vendute” a trafficanti dalle cui grinfie abbiamo faticato non poco a sottrarle.
7.- il loro vissuto ovviamente incide sui loro comportamenti e sui loro atteggiamenti?
Naturalmente sì, anche se abbiamo sperimentato sulla nostra pelle come un lavoro sinergico e davvero efficace possa restituire, a volte, risultati e cambiamenti davvero inimmaginabili. Abbiamo visto letteralmente trasformarsi, sotto i nostri occhi, situazioni apparentemente irrecuperabili.
Gli atteggiamenti di rifiuto e ribellione, disagi spesso sedimentati in anni di sofferenza hanno certo bisogno di molto tempo e di un grande lavoro per essere affrontati ed auspicabilmente superati, a volte però la pura “accoglienza” è di per sé stessa un viatico immediato al superamento del disagio di chi, spesso, una vera famiglia non ce l’ha mai avuta.
Non sono mancati, certo, gli inevitabili fallimenti, né riusciamo a garantire che situazioni problematiche (a volte purtroppo davvero al di là delle nostre possibilità e sicuramente meritevoli di ben altro intervento in strutture propriamente “terapeutiche”) portino, come purtroppo avviene anche nelle migliori famiglie, a comportamenti disfunzionali sia dentro che fuori dalla casa famiglia.
Lo ribadisco, i nostri ragazzi sono adolescenti, spesso provenienti da culture anche molto diverse dalla nostra o da contesti apertamente disfunzionali e non sempre è facile evitare (tanto più nel periodo immediatamente successivo al loro arrivo) che possano lasciarsi andare a schiamazzi, discussioni o si lascino persino coinvolgere in episodi più gravi, per i quali, in ogni caso, siamo noi i primi a d allertare le Forze dell’Ordine con cui, fortunatamente, abbiamo sempre collaborato in maniera esemplare.
8.- con quale spirito la città dovrebbe porsi nei confronti di questi giovani?
Noi ci rendiamo conto che la convivenza con strutture come le nostre possa, a volte, essere complessa. Non ignoriamo il disagio che possiamo causare e ribadiamo la nostra massima disponibilità ad alleviare queste problematiche e cercare, in ogni modo, di intervenire per far sì che il nostro lavoro educativo possa essere più efficace e puntuale (siamo, come tutti, perfettibili).
Quello che chiediamo alla città è uno sguardo sicuramente più indulgente innanzitutto verso i nostri ragazzi e anche verso il nostro lavoro, ribadendo la nostra massima disponibilità a mostrare direttamente ciò che facciamo (e ci piacerebbe, presto, organizzare proprio a tal fine un open day sempre con i vincoli di una struttura protetta).
Vi chiediamo, soprattutto, di comprendere come l’integrazione sia un processo di “reciprocità” e quindi, se possibile, di aprirvi a ragazzi che, vi assicuro, sono, tutti, straordinari, superando quei muri assurdi sui quali, troppo spesso, le nostre intenzioni si sono infrante.
Aiutateci ad aver cura di questi ragazzi, ad insegnargli ad aver cura di voi.
9.- cosa vuole dire alle persone che vi hanno criticato e mortificato?
Non ho, davvero, molto da dire a chi, evidentemente, preferisce affidarsi a preconcetti ed ha già dimostrato, ben prima del nostro ingresso nelle nuove strutture, di paventare come il male assoluto il nostro arrivo. E’, per me, davvero avvilente pensare che i nostri immensi sforzi per “restituire” alla città un immobile storico che rischiava di crollare sotto il peso dell’incuria di anni e bonificare un parco meraviglioso siano stati da subito accolti, da una parte magari minoritaria ma certo molto rumorosa della città, come un’indebita, interessata intromissione nella tranquilla e silenziosa decadenza a cui, evidentemente, si preferirebbe abbandonare questa città.